Traduzione tra cinese e italiano: studio, sensibilità e responsabilità
“I misteri cinesi scompaiono in un solo modo, studiando”. Così l’amato premier cinese Zhou Enlai invitava il mondo a studiare per capire quella grande, e in parte sconosciuta, civiltà. Giuseppe Avino lo sa e spera, attraverso la traduzione, di svelare i misteri e le emozioni del Paese di Mezzo.
Qualche mese fa ho avuto il piacere di conoscere Giuseppe Avino. Sinologo per vocazione prima che per professione, Giuseppe ha trascorso l’ultimo decennio in costante equilibrio tra Cina e Italia. Profondo e appassionato conoscitore della lingua cinese, attualmente sta lavorando alla traduzione di un romanzo breve di Yu Xiuhua, autrice sconosciuta al pubblico italiano ma che ha conquistato una certa fama in patria e nei circoli letterari internazionali.
Oggi, Giuseppe si racconta per spiegarci cosa significa tradurre un libro e, soprattutto, cosa significa respirare giornalmente due culture articolate e distanti come quella cinese e quella italiana.
Giuseppe, grazie per avermi dedicato un po’ del tuo tempo. Prima di iniziare, parlaci un po’ di te e delle tue esperienze.
Mi chiamo Giuseppe Avino, sono di origine campana, ho 35 anni e attualmente vivo a Milano. Sono un sinologo di formazione e da circa otto anni lavoro nel settore dell’istruzione: consulenza e orientamento universitario per gli studenti internazionali (principalmente candidati cinesi) e gestione di progetti didattico-formativi internazionali. Mi occupo anche di traduzione dal cinese, lingua che ho studiato e approfondito durante l’università e nel corso di più di dieci anni di vita trascorsi in Cina. Negli ultimi anni mi sono specializzato in traduzione editoriale, partecipando a master, seminari e laboratori, sia in Italia che in Cina.
L’amore per la Cina nasce in maniera del tutto fortuita. Da piccolo non ero appassionato di Asia e ne sapevo davvero poco. Si è trattato, perciò, di un incontro voluto dal destino.
Ero andato ad uno di quelli che allora ancora non si chiamavano “Open Day” dell’Università L’Orientale di Napoli ed un ragazzo che faceva l’orientatore (chi l’avrebbe mai detto che mi sarei ritrovato a fare il suo stesso lavoro di lì a qualche anno…) mi presentò la possibilità di scegliere, all’interno del percorso di Relazioni Internazionali, un curriculum dalla “veste” tutta particolare: da un lato un piano di studi “classico” delle Scienze Politiche, dall’altro quello – oserei dire – “alternativo” degli studi sinologici: indirizzo che in quegli anni solo L’Orientale di Napoli aveva.
Superato qualche dubbio iniziale, allacciai la cintura e presi il volo dando inizio all’avventura: una scoperta dopo l’altra, un’escalation di interessi e curiosità per la Cina che mi hanno portato poco alla volta a discostarmi da quella formazione “politologica” tipica di un laureato in Scienze Politiche, per avvicinarmi sempre di più a quella “sinologica”, con un interesse particolare per i temi umanistici e culturali.
Parlando di traduzione: cosa stai traducendo? È la prima volta che traduci un libro?
Da marzo sono impegnato nella traduzione di un romanzo breve (una raccolta di due racconti) di Yu Xiuhua, una scrittrice cinese dello Hubei, affetta da paralisi celebrale fin dalla nascita, che ha trovato nella scrittura la sua finestra aperta sulla felicità. Non è la prima volta che traduco racconti, ma è la prima volta che una mia traduzione verrà pubblicata, e questa cosa mi rende molto felice.
L’italiano e il cinese sono due lingue distanti, espressione di due culture molto diverse. Qual è la responsabilità più grande che un traduttore (di narrativa) sente di avere?
Sicuramente quella di restituire le emozioni originarie. La traduzione letteraria è qualcosa di estremamente difficile, ma che può diventare assai facile se si è in grado di cogliere a pieno il senso delle parole dell’autore. E per “senso” non intendo quello letterale, bensì l’emozione, il costrutto psico-emotivo che c’è dietro la scelta – consapevole o meno – di una parola, di una metafora, di una virgola in luogo di un punto.
Io traduco anche poesia e questo discorso, nel terreno dei versi, assume un ruolo ancora più significativo. Se non sono in grado di percepire la pulsione creativa che sottende l’atto della scrittura poetica, difficilmente comprenderò il senso di versi composti in una lingua così lontana dalla mia. Con il cinese, poi, si aggiunge l’“aggravante” dei caratteri (spesso scelti dall’autore non solo per il loro valore sintattico ma anche per quello estetico) la cui funzione squisitamente adornante, purtroppo, non potrà mai trovare equivalenza nella lingua italiana. Allora il traduttore deve essere bravo a cogliere quella emozione, ma deve essere ancora più bravo ad “impacchettarla” così bene che il lettore la riceva esattamente come l’autore voleva donargliela.
È un mestiere che richiede un grande senso di responsabilità e un’infinita pazienza. Quando ti siedi davanti al pc e inizi a tradurre devi munirti di tutti gli strumenti necessari per fare un buon lavoro e per portare a casa un risultato positivo, proprio come fa il medico quando entra in sala operatoria.
Qual è secondo te la più grande opportunità che si ha nel tradurre un libro dal cinese all’italiano?
Indubbiamente quella di continuare ad indagare sull’universalità delle emozioni umane. Ma questo vale per tutte le lingue e tutte le culture che si incontrano. Che tu traduca dal cinese o dall’arabo, ti troverai costantemente a riscontrare che se c’è qualcosa di terribilmente affascinante nella scoperta delle differenze è che, quando si parla di emozioni, queste si assomigliano tremendamente.
Con il cinese il lavoro della traduzione si fa ancora più intrigante perché la sfida è duplice: da un lato devi sviscerare dei significati, dei valori, da un “disegno” (i tuoi occhi non vedono lettere, non ci sono parole), dall’altro devi smontare completamente l’architettura della frase per ricostruirla dandole un senso compiuto e narrativamente “bello” in italiano. Ma mentre compi questa operazione tecnicamente complessa, ti accorgi che in fondo tutti sentiamo le stesse cose, viviamo gli stessi drammi, amiamo allo stesso modo. Questa è, secondo me, un’opportunità che solo la traduzione ti può dare.
Quali sono le maggiori difficoltà nel tradurre un libro dal cinese all’italiano?
In parte credo di aver già risposto a questa domanda. Ma aggiungerei ancora qualche punto che ha valore, in generale, quando si parla di traduzione.
È necessario conoscere approfonditamente le culture e le lingue tra le quali si vuole costruire il ponte. Se c’è squilibrio fra i due territori, difficilmente il ponte reggerà.
E poi – dirò una cosa che potrà sembrare scontata, ma forse non lo è – per chi vuole tradurre è fondamentale avere una buona predisposizione per la scrittura.
Nello specifico, essendo il cinese una lingua isolante, cioè praticamente priva di morfologia, le cui “parole” assumono accezioni diverse a seconda del contesto e dell’accoppiamento con altre e avendo regole grammaticali talvolta poco comprensibili ed estranee alla nostra grammatica, all’atto della traduzione, il traduttore-scrittore, è chiamato – in buona sostanza – ad una vera e propria “invenzione” della frase. Una scrittura ex novo, possibile solo se entrano in gioco tutte le capacità descritte sopra.
Cos’è per te le Cina oggi? Come la guardi oggi?
Oggi guardo alla Cina con occhi un po’ diversi da come la guardavo fino a due anni fa, quando ancora vivevo lì. Ora la osservo – mi tocca ammetterlo – con lo sguardo dell’innamorato che ne è ancora tanto innamorato, ma non ne è più infatuato. Ma credo che dopo sedici anni di “relazione” una tale evoluzione sia anche naturale.
Sono sicuramente molto più critico nei suoi confronti, mi interessa osservarne anche quei lati bui che invece prima tendevo a non voler vedere. Niente è perfetto, nemmeno la “mia” Cina, e ora riesco ad accettare questa verità.
È passato un decennio dalla tua prima volta in Cina, come vedi la Cina tra dieci anni?
Vedo ancora un grande potenziale in quel Paese. Un decennio è un lasso di tempo relativamente breve. Credo che la Cina continuerà a farsi strada in maniera preponderante nello scenario internazionale e sono convinto che i fattori culturali – soprattutto quelli – contribuiranno ancora una volta ad accelerare il processo di conoscenza e di interazione con quel mondo, più di tutti la letteratura.
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Rocco Forgione, classe 1992. Da sempre amante dei viaggi, della lettura e dell’Asia. Ho conseguito una laurea triennale in Lingue e Mediazione Linguistico-Culturale a Roma e poi una doppia laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università di Torino e la Zhejiang University. Sempre pronto a raccogliere la prossima sfida!