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Minoranze etniche in Cina: tra senso di identità e assimilazione

Minoranze etniche in Cina: tra senso di identità e assimilazione

minoranze etniche in Cina

Il rapporto tra maggioranza Han e minoranze etniche in Cina è sempre stato delicato e complesso: in equilibrio tra senso d’identità e assimilazione.

SOMMARIO

Quali sono le minoranze e dove si trovano

Con 56 gruppi etnici riconosciuti, la Cina si definisce uno stato unitario multietnico. Guardando alle percentuali, però, la popolazione cinese è piuttosto omogenea: il 91,59% appartiene all’etnia Han e solamente l’8,41% alle restanti 55 etnie (Censimento del 2010). Solo dieci minoranze contano più di due milioni di unità, di esse la più numerosa è l’etnia Zhuang (16 milioni).

Geograficamente le minoranze etniche in Cina si concentrano nelle regioni occidentali e di confine, che costituiscono oltre il 60% del territorio nazionale. Per assicurarsi il loro consenso e quindi garantire l’integrità territoriale e il controllo delle strategiche aree di confine, per giunta ricche di risorse naturali, nel 1984 il governo ha istituito 5 regioni autonome (自治区 zizhiqu): Mongolia Interna, Xinjiang, Guangxi, Ningxia e Tibet. Oltre alle 5 regioni, è stata sancita l’autonomia per 30 prefetture (自治州 zizhizhou), 119 contee (自治县 zizhixian) e 1256 comuni (民族乡 minzuxiang), in base a dove la percentuale di minoranze etniche (in cinese 少数民族 shaoshuminzu) superasse il 20% della popolazione totale.

L’autonomia garantisce alla popolazione di queste regioni di esercitare un certo grado di autogoverno in termini di politiche specifiche. Le minoranze inoltre godono di trattamenti preferenziali in termini di esenzioni fiscali; accesso al sistema scolastico e alla pubblica amministrazione; e politiche di pianificazione famigliare.

La distribuzione delle minoranze etniche sul territorio cinese.

L’assimilazione delle minoranze nella storia cinese

Date le vaste dimensioni che lo stato cinese ha assunto nei secoli, il rapporto tra centro e periferia, maggioranza e minoranze è sempre stato di cruciale importanza. In epoca imperiale le etnie erano definite in termini prevalentemente culturali, e non come gruppi politici ben definiti; le interazioni erano tra “barbari” e “civilizzati”, dove questi ultimi imponevano la loro superiorità attraverso assimilazione e sinizzazione. L’identità etnica e quella religiosa erano meno rilevanti delle capacità tecniche e di governo che assicuravano il “mandato del cielo” (la legittimazione divina a governare). Infatti, ben due tra le più longeve e potenti dinastie cinesi non furono di etnia Han, ma Mongola (Yuan) e Mancese (Qing).

Con la Repubblica prima e la Repubblica Popolare poi, il concetto di etnia assunse un valore politico, diventando un’entità legata a un territorio specifico. L’assimilazione era pertanto funzionale al mantenimento dell’integrità territoriale e ad arginare le spinte indipendentiste dei gruppi etnici con un forte senso di identità.

I gruppi etnici furono classificati per la prima volta a partire dagli anni 1950 con un grande progetto lanciato dal Partito Comunista (PCC). Prima sotto l’egida di Mao Zedong e poi di Deng Xiaoping, il PCC tentò sempre di regolamentare i rapporti con le minoranze. Secondo le Costituzioni promulgate dal 1953 al 1982, i cinque principi fondamentali nei confronti delle minoranze sono sempre stati unità, uguaglianza, aiuto reciproco, autonomia regionale e condanna dello sciovinismo Han. Tuttavia, in concomitanza con la Rivoluzione Culturale (1966-1976), anche l’approccio del governo nei confronti delle minoranze etniche si è inasprito radicalmente.

Il divario tra legge e reali benefici delle minoranze

Nonostante la legge stabilisca la pacifica interazione tra le varie etnie e conceda una serie di privilegi alle minoranze, l’approccio governativo è sempre stato di carattere utilitaristico. In molti casi, i reali benefici delle minoranze si sono rivelati molto più limitati rispetto a quelli “sulla carta”. All’origine di scontri noti tra minoranze etniche e governo centrale in Cina, vi sono anche sopraffazioni che riguardano gli aspetti più concreti della vita. 

Le migrazioni in massa di cittadini Han verso le aree periferiche creano forte malcontento. Invece che creare opportunità lavorative a favore delle minoranze, si rivelano convenienti soprattutto per i cinesi Han, avvantaggiati nelle posizioni professionali più alte. Inoltre, pur avendo diritto ad un’educazione bilingue, non sempre gli studenti delle aree autonome possono beneficiarne a causa di scarsità di fondi e insegnanti. Così la trasmissione del patrimonio linguistico delle minoranze è garantita dalla legge, ma lo stato concentra piuttosto risorse sull’assimilazione linguistica del cinese mandarino.

Infine, l’identità culturale delle minoranze è distorta dalla propaganda statale. I media, infatti, ne evidenziano solo le caratteristiche più folkloristiche e superficiali, come le danze, i costumi e le musiche popolari. Lungi da potersi raccontare con la propria voce, le minoranze vengono ridotte a fenomeni esotici, innocenti, innocui e romanticamente “barbari”. La narrazione del Tibet da parte di Pechino, per esempio, ricalca questa ambivalenza. Da un lato, il governo celebra il suo intervento nella regione per avervi portato “civiltà” e benessere, scardinando un sistema feudale e barbaro, edificando infrastrutture e offrendo benefici materiali. Allo stesso tempo però, il paradosso è che, nel tentativo di mantenere viva la cultura originale, il governa centrale promuova principalmente gli elementi più naïf della cultura tradizionale tibetana, la stessa che è stata intaccata proprio dalla “civiltà” e il benessere che si è sostituito al sistema feudale tibetano.

Conclusione

Con le parole di Mao, “la Cina ha una popolazione numerosa e un vasto territorio”. Se la popolazione numerosa è prerogativa dell’etnia Han, il vasto territorio si riferisce alle minoranze etniche, che occupano due terzi del paese. Perciò, nel corso della storia cinese il rapporto tra Han e minoranze è sempre stato cruciale e complesso. Nella Cina di oggi, le minoranze sono tutelate e addirittura avvantaggiate dal punto di vista legislativo. L’approccio del governo nei loro confronti, tuttavia, è utilitaristico e paternalista e non sempre ciò che è stabilito dalla legge si traduce in benefici reali.



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